La tragedia del "LACONIA"
Un crimine di guerra rimasto impunito
Il "Laconia", transatlantico inglese della Cunard Line fu varato nel 1921 per coprire le rotte di crociera tra l'Inghilterra e la costa orientale degli Stati Uniti. Nel 1939 fu requisito dalla Royal Navy e trasformato in cargo incrociatore. Agli inizi del 1940 fu munito di otto cannoni e di due obici e destinato prima come servizio di scorta e poi come nave trasporto truppe.
Nel settembre del 1941 fu, infine, trasformato in mercantile armato e fu inviato in Medio Oriente dove eseguì diverse missioni.
Il 29 luglio 1942 la nave, salpò da Port Tewfik, adiacente al porto di Suez, per il rimpatrio di ufficiali inglesi, insieme alle loro famiglie, e di soldati. Furono imbarcati 463 ufficiali e uomini dell'equipaggio, 268 soldati britannici in qualità di passeggeri, 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardia e 80 tra donne e bambini.
Sul Laconia furono imbarcati anche 1.841 soldati italiani prigionieri catturati durante la prima battaglia di El-Alamein, terminata il 27 luglio.
I nostri soldati furono rinchiusi in quattro gabbioni contenenti ognuno 460 uomini e calati nella stiva dove non c'erano oblò e l'aria era irrespirabile. Le già terribili condizioni, la stiva infatti poteva contenere solo la metà dei prigionieri, furono ulteriormente peggiorate dalla brutalità dei 103 carcerieri polacchi che, comandati dal colonnello Baldwin, si accanirono con disumana ferocia sui nostri soldati sottoponendoli ad ogni sorta di violenza e di sevizie.
La nave fece tappa nei porti di Aden, Mombasa, Durban e Città del Capo, da dove, invece che proseguire per l'Inghilterra, prese la rotta per gli Stati Uniti, allontanandosi dalle coste africane ed addentrandosi nell'Oceano Atlantico, dove erano presenti numerosi sommergibili tedeschi in servizio di pattugliamento.
Nella notte del 12 settembre 1942 il Laconia navigava a luci spente nell'oscurità seguendo una rotta a zig-zag per evitare attacchi di sommergibili. Alle ore 22 (20:10 secondo altre testimonianze), 130 miglia a nord-nord est dall'Isola di Ascensione il Capitano Werner Hartenstein, comandante del sottomarino tedesco U-156, incrociò la rotta del Laconia che venne identificato come obiettivo militare in quanto, in relazione con le leggi di guerra osservate dall’Asse e dagli anglo-americani, la nave batteva bandiera nemica, zigzagava come di norma a luci spente, e soprattutto era armata, con cannoni navali e cannoni antiaerei visibili sul ponte.
Hartenstein lanciò un primo siluro che colpì la nave a dritta. L'esplosione interessò la stiva e molti dei prigionieri italiani a bordo morirono all'istante. In un primo momento il Capitano R. Sharp, comandante della nave, riuscì a tenere sotto controllo la situazione. Poco dopo, però, la nave venne colpita da un secondo siluro e Sharp ordinò quindi che donne, bambini e feriti gravi fossero imbarcati sulle scialuppe di salvataggio; in quel momento il ponte di poppa iniziava ad essere invaso dall'acqua. Secondo alcune testimonianze di prigionieri sopravvissuti, le guardie polacche lasciarono chiuse le stive dei prigionieri italiani impedendo loro di raggiungere le scialuppe di salvataggio; tra l'altro alcune delle trentadue scialuppe di salvataggio erano state distrutte nelle esplosioni. In seguito, alcuni gruppi di italiani riuscirono a liberarsi ma non ebbero possibilità di imbarcarsi sulle scialuppe. Infatti, alle 23:25 (21:11 secondo altre testimonianze) mentre si stava calando ancora l’ultima scialuppa, le caldaie del Laconia esplosero. Il piroscafo si inabissò di prua. Sulla nave rimasero, oltre a centinaia di prigionieri morti o intrappolati nelle gabbie, anche il comandante Sharp ed il secondo capitano Steel che scelsero di rimanere a bordo per non occupare due dei pochi posti disponibili nelle scialuppe di salvataggio.
Intanto i naufraghi in acqua e sulle scialuppe si trovarono a dover fronteggiare anche gli squali in mare aperto in pieno Atlantico, con poche probabilità di sopravvivenza.
Come sempre accadeva, nel rispetto di una legge del mare, il comandante del sottomarino tedesco diede l'ordine di emergere per prestare soccorso ai naufraghi. Il Capitano Hartenstein capì immediatamente la drammatica situazione quando, invece di un normale equipaggio vide, in mare, centinaia di naufraghi udendo chiaramente voci in lingua italiana. Chiese immediatamente, usando una radiofrequenza aperta, l'intervento di tutte le navi vicine nell'area per contribuire a raccogliere i sopravvissuti. Contemporaneamente fece drappeggiare il sottomarino con bandiere bianche con croci rosse per evitare attacchi aerei e proteggere i sopravvissuti.
Gli inglesi, come si apprese in seguito, captarono il messaggio ma, pensando ad un’imboscata, preferirono ignorarlo. Nel frattempo, mentre si cercava di aiutare i naufraghi, non facendo differenze fra alleati e nemici, dal sottomarino partì un messaggio diretto al comando sommergibili tedesco, "Affondato inglese Laconia. Purtroppo con 1500 prigionieri italiani. Sino a ora 90 salvati. Chiedo ordini. Hartenstein". Il Viceammiraglio Dönitz fu svegliato a Parigi, la decisione da prendere non era affatto semplice, dal punto di vista militare la scelta era semplice: bisognava buttare a mare i naufraghi in quanto lo scafo non era adatto a trasportarli. Ma Dönitz era prima di tutto un marinaio e decise di inviare a dar manforte all’U-156 altre unità l’U-506, l’U-507 e l’U-459.
Harro Schacht, comandante dell’U-507, era a 750 miglia dal luogo del naufragio e per raggiungerlo, alla velocità di 15 nodi all’ora ci avrebbe impiegato due giorni. Il comandante dell’U-506, Würdemann, era partito verso il luogo della tragedia di sua iniziativa, prima ancora di ricevere ordini dall’ammiragliato; il terzo l’U-459 era comandato da Wilamowitz Möllendorf, un veterano della Prima Guerra mondiale.
Il 15 settembre, alle 11:30, arrivò l’U-506 che imbarcò circa la metà degli oltre 260 naufraghi che erano sullo scafo di Hartestein, chiedendo che fossero tutti italiani. Verso le 15 arrivò anche l’U-507 che collaborò al recupero di altre imbarcazioni alla deriva. Giunse anche il sommergibile italiano Alfredo Cappellini, al comando del Tenente di vascello Marco Revedin, che aveva già rifornito di viveri e acqua alcune scialuppe alla deriva con inglesi a bordo.
Il 16 settembre, alle 11:25, apparve all’orizzonte un bombardiere americano. Si trattava di un B-24D Liberator proveniente dalla base installata sull'isola di Ascensione.
Sul sommergibile tedesco, peraltro impossibilitato ad immergersi per il gran numero di prigionieri che erano ospitati in coperta, fu esposta una grande bandiera bianca con la croce rossa e un ufficiale della RAF, prigioniero, trasmise, dalla radio del sommergibile sulla frequenza dell’aereo, un messaggio che raccomandava di non attaccare in quanto a bordo si trovavano naufraghi del Laconia fra cui numerose donne e bambini.
Da parte del bombardiere americano non ci fu risposta e si allontanò.
Un’ora dopo il B-24, pilotato dai tenenti americani James D. Harden e Edgar W. Keller, ricomparve all’orizzonte ed iniziò a sganciare il carico di bombe in esecuzione dell'ordine di attacco ricevuto dal loro comandante, il colonnello Robert Charlwood Richardson III, che si trovava sulla base dell'isola di Ascensione.
Fu un momento drammatico. Il sottomarino cercò di evitare le bombe con manovre diversive e ancora con le scialuppe a traino; una di queste fu centrata da una bomba causando la morte dei naufraghi a bordo.
Per ben due volte il bombardiere americano sganciò il suo carico di bombe, colpendo infine anche il sommergibile e costringendo Hartenstein a immergersi dopo aver ordinato l'evacuazione dei naufraghi presenti sul ponte e fatto tagliare le cime che rimorchiavano le scialuppe.
Quando riemerse trasmise il seguente messaggio al suo comando: "Hartenstein. -stop- Liberator americano ci ha bombardato cinque volte con quattro lance cariche nonostante bandiera di croce rossa di 4 metri quadrati -stop- Altezza era di 60 metri -stop- I due periscopi danneggiati -stop- Interruzione salvataggio -stop- Tutti sgombrati dal ponte -stop- Vado a ovest per riparare -stop- Hartenstein".
La notizia dell’attacco, subìto a tradimento mentre si stava compiendo una operazione umanitaria di salvataggio, arrivò anche alle altre unità tedesche ed italiane impegnate a rastrellare i naufraghi in un ampio tratto di mare. L'ammiraglio Dönitz, dalla Francia, ordinò di abbandonare le operazioni di soccorso per salvaguardare i mezzi e gli equipaggi tedeschi.
L’attacco americano all’U-156, impegnato nel salvataggio della Laconia, ebbe una conseguenza che si protrasse per tutta la durata del conflitto. Da allora in poi, infatti, Dönitz ordinò ai suoi sommergibili di non occuparsi più dei naufraghi delle navi affondate. Una decisione, denominata "Triton Null", che sarebbe diventata un capo di imputazione contro di lui al processo di Norimberga.
I superstiti italiani furono imbarcati a bordo dei sommergibili per essere affidati alle navi francesi, mentre il resto dei naufraghi fu imbarcato sulle scialuppe di salvataggio con viveri ed acqua sufficienti.
Per tutta la giornata del 17 settembre due navi francesi, il Gloire e l'Annamite, guidate via radio dai sommergibili tedeschi, continuarono a trarre in salvo naufraghi alla deriva.
Alle operazioni di soccorso continuò a partecipare anche il nostro sommergibile Cappellini che trasse in salvo un centinaio di naufraghi trasbordandoli, poi, su una delle navi francesi.
A seguito del bombardamento americano le due scialuppe, che erano al traino dell’U-156, andarono subito alla deriva e, purtroppo, non furono avvistate dalle navi di soccorso. Dopo indicibili sofferenze solo 16 dei 64 naufraghi imbarcati sulle scialuppe, fra cui donne e bambini, arrivarono il 9 ottobre, dopo quasi un mese di deriva, sulle coste della Liberia.
Il 21 ottobre, quasi quaranta giorni dopo l’affondamento, fu avvistato in mare il secondo canotto del Laconia: dei 51 occupanti ne erano rimasti in vita solo quattro, ormai sfiniti ed allo stremo delle forze.
La perdita di vite umane fu enorme, su 2.755 persone solo 1.111 sopravvissero.
Dei 1.841 prigionieri italiani imbarcati, solo 450 furono tratti in salvo.
Per gli altri 1.391, compreso il nostro bersagliere Fortunato Marchetto, non ci fu salvezza.
Delle altre 914 persone imbarcate, inglesi, polacchi, equipaggio e civili se ne salvarono 661.
Pochi mesi dopo aver salvato i naufraghi della Laconia, il generoso comandante dell’U-156 ed il suo equipaggio furono a loro volta affondati al largo delle isole Barbados l’8 marzo del 1943. Nessuno di loro si salvò.
Le forze anglo-americane non uscirono certamente a fronte alta da questo episodio che fu, in un primo tempo, addirittura negato dichiarando che il messaggio del Laconia non fu mai captato.
Dell’affondamento della Laconia si tornò a parlare il 9 maggio 1946 al processo di Norimberga quando gli anglo-americani processarono Dönitz per crimini di guerra. L’ammiraglio tedesco, che al termine del processo venne condannato a 15 anni di carcere, si difese con quei documenti che oggi rappresentano le prove della tragedia della Laconia.
Per anni, di fronte all’indignazione generale, il governo degli Stati Uniti tentò di negare l’operazione bellica del Liberator nonostante le testimonianze anche dei superstiti inglesi loro alleati. Solo trenta anni dopo venne fatta luce su questo episodio ma nessuno pagò per questo crimine. I tenenti James D. Harden e Edgar W. Keller che sganciarono le bombe ed il colonnello Robert Charlwood Richardson III, che ordinò il bombardamento, non furono mai coinvolti in nessuna indagine volta a far luce e giustizia su questo orribile crimine di guerra.
Per la redazione di questa pagina ci siamo riferiti al libro "Da el Alamein al Laconia" di Gian Paolo Bertelli (Ed. 2008).
Desideriamo inoltre ringraziare:
Onorcaduti;
Il Ministero della Difesa e l'Ufficio Storico Militare;
Daniele Moretto e le pagine del suo sito www.qattara.it ;