Il Piccolo Museo di Noè racconta la guerra con gli oggetti della sua raccolta.
La gavetta del soldato italiano
I soldati italiani entrarono in guerra nel 1915 equipaggiati con la gavetta modello 1896 che costituiva una modifica del primo modello, costruito nel 1872. Era fabbricata con lamiera stagnata e si presentava con forma semiellittica con un gancio rettangolare di chiusura, saldato sul davanti, e un sottile manico tubolare infilato in due passanti posti sui fianchi. La dotazione si completava con il coperchio che fungeva da piattino, da un gavettino e da un cucchiaio.
Praticando dei fori sul coperchio, che fu poi abolito dall'estate del 1918, i soldati ricavavano una grattugia o, più semplicemente, un colino. Questo modello rimase in dotazione al Regio Esercito fino al 1930.
Il modello fu distribuito a tutte le componenti dell'esercito tranne i reparti alpini e di artiglieria da montagna che, a causa dell'ambiente operativo, potevano usufruire di un tipo diverso con capacità quasi doppia. In realtà i regolamenti dell’epoca prevedevano che in montagna un alpino portasse il rancio per due persone mentre, il commilitone sgravato del peso della gavetta e del cibo, portasse la legna da ardere, così che con un solo recipiente sarebbe stato possibile scaldare il cibo per due persone.
Curiosità : Fra le industrie che, durante la Prima guerra mondiale, producevano le gavette e le stoviglie per i militari italiana c'era anche la Lagostina che, destinata con gli anni a divenire famosa, è tutt'oggi ancora esistente.
Quello che nella guerra coloniale era il problema del caldo e delle distanze, diventò, nella Prima guerra mondiale un problema di freddo e di qualità del cibo. Durante tutto quel drammatico periodo, e per l'enorme numero di uomini coinvolti, l'intero sistema militare, soprattutto quello dell'approvvigionamento e della logistica, fu mess a dura e continua prova.
Ogni fronte di guerra deve confrontarsi, inevitabilmente, anche con problematiche territoriali e geografiche e le nostre prime linee, dalle Alpi al Carso, erano luoghi dove, far giungere il vitto o le materie prime per confezionarlo e distribuirlo alle truppe, costituiva una sfida quotidiana anche in ragione della viabilità e dello stato delle infrastrutture. Il dispendio di calorie di un soldato in azione è altissimo e capire come rifornirlo puntualmente e adeguatamente fu uno dei grandi problemi in tutte le battaglie soprattutto durante quelle drammatiche dell'Isonzo o quelle estenuanti e lunghe nelle quote alpine. Fame e, soprattutto sete, erano la costante compagnia degli uomini soprattutto nei periodi estivi quando, la prima a mancare, era proprio l'acqua potabile.
Il rancio era trasportato dalle retrovie mediante le casse di cottura, che contenevano le marmitte "termiche", con una trentina di razioni ognuna. Il tutto veniva trasportato, generalmente con l'ausilio dei generosi muli, fino alla prima linea.
La marmitta era in grado di mantenere la temperatura interna di 60 gradi per più di 24 ore, per cui la cottura avveniva in gran parte durante il trasporto anche se, per la stessa ragione, in molte occasioni gli alimenti arrivavano stracotti e, in caso di riso o pasta, ridotti ad informi ammassi collosi.
Le razioni erano di tre tipi e variavano da fronte a retrovia. Qui si consumava la razione territoriale modificata, che prevedeva meno calorie, mentre al fronte venivano distribuite la razione normale di guerra e quella invernale di guerra.
Esisteva anche una razione da viaggio che era composta da 400 grammi di gallette e 220 grammi di carne in scatola, generalmente carne di bue in conserva. Naturalmente la razione, che all'inizio della guerra consisteva in 750 grammi di pane, 375 di carne, 200 di pasta oltre a cioccolato, caffè, formaggio, cambiò a seconda della disponibilità dei viveri che nel corso della guerra e variò sensibilmente anche in relazione alla località.
In alta montagna venivano distribuiti supplementi di lardo, pancetta, latte condensato, mentre per i soldati dislocati nelle trincee era contemplata anche la somministrazione di alcolici che, quasi sempre, era segno inequivocabile di un imminente assalto.
Nel dicembre 1916, la razione diminuì per i problemi alimentari di cui soffriva l'Italia, passando dalle iniziali 3.500 a circa 3.000 calorie che erano costituite da 600 grammi di pane e 250 di carne, spesso sostituita da pesce dal momento che la disponibilità di carne bovina era in larga parte dipendente dalle importazioni dalla Romania e dagli altri paesi limitrofi che, con il susseguirsi degli eventi bellici, furono intralciate e ritardate con inevitabili ripercussioni sulla disponibilità.
Lo sforzo dell'industria alimentare italiana, asservita agli scopi di sostentamento della macchina bellica, era enorme e, dopo Caporetto, gli italiani chiesero insistentemente più grano agli alleati, ma a quel punto, un nuovo problema impediva gli approvvigionamenti. La marina mercantile, falcidiata da affondamenti ad opera di navi e sommergibili nemici, stava pagando un drammatico tributo al loro impegno nello scenario bellico.
Comunque, già dal gennaio 1917, era stato possibile aumentare la razione giornaliera delle truppe, che fu portata gradualmente a superare le 3.000 calorie precedenti.
Nel giugno 1918, la razione venne aumentata ulteriormente arrivando a 3.600 calorie anche per sorreggere lo spirito dei combattenti impegnati nelle decisive battaglie contro l'estremo tentativo nemico di infrangere il fronte italiano.
In quel periodo, solo per un rapido confronto, le truppe francesi ricevevano una razione di 3.400 calorie e gli inglesi di 4.400.
La razione quotidiana dei nostri soldati comprendeva 750 grammi di pane e 250 grammi di carne a cui si aggiungeva un quarto di vino, caffè, zucchero, riso o pasta e generi di conforto come sardine, marmellata, cioccolato e il "cordiale", l'alcolico prima della battaglia.
Paolo Monelli - Le scarpe al sole
Stasera attendevo a cena gli ufficiali della 297a del Cuneo, ma hanno telefonato che non verranno.
Un breve conciliabolo fra me e i subalterni, poi ordine al sergente di tirar fuori dalla baracca i cinque tali soldati, uno per plotone e uno della sezione mitragliatrici, per motivi urgenti.
"Armati?"
"Non importa."
Un affar serio a svegliarli, quei cinque, poi un coro di bestemmie, branciando nel buio a cercar le scarpe.
"Col fusil?"
"No, sensa. Marcia tradotta".
"Ostia, cosa volli che i no lassa gnanca dormir !"
"In ricognision, i te manda"
"In mònega !"
"In ricognision senza ‘l fusil ?"
Dopo cinque minuti i cinque, imbambolati, sull’attenti, ricevono gli ordini dall’ufficiale di servizio:
vuotare una zuppiera colma di gnocchi nella cucina ufficiali, il formaggio c’è sopra, portarsi il cucchiaio, dopo passare dal capitano a prendere un bicchiere di vino.
Vengono infatti, poco dopo, Bordoli dice che nemmeno ha bisogno di lavarla la zuppiera, con gli occhi lustri, a bere il vino e raccontar la loro gioia.
Dice Tonòn, piccolo, rosso, la barbetta da becco:
“l’è il dì pi bel de la me vida”